Semplicemente ignoriamo
Nell'estate del 1899 l'agente agricolo Dean Lawrence viene inviato dall’Ufficio degli Affari Indiani degli Stati Uniti in un villaggio di indios Pueblo dell'Arizona. Dean era una brava persona, realmente convinta che il suo lavoro e le sue conoscenze avrebbero potuto aiutare quella comunità. La sua era una mentalità lontana dal coloniale e invadente “pensiero yankee” prevalente all’epoca. Per questo l'approccio con i nativi fu da subito molto buono, tanto che Lawrence decise di rimanere in pianta stabile in quel territorio. L'obiettivo era insegnare loro le tecniche di coltivazione che avrebbero dovuto (secondo i piani del governo americano) renderli autonomi dai sussidi. Verso la fine dell'inverno però, qualcosa comincia ad andare storto. La situazione precipita velocemente, tanto che Lawrence decide di chiedere aiuto all'agente indiano perché teme per la sua vita. Per qualche ragione si sente odiato e osteggiato, mentre lui ha come unico obiettivo quello di aiutare. L'agente indiano convoca uno dei capi religiosi dei Pueblos e gli chiede quale sia il problema. L'indiano risponde alla domanda in modo laconico “semplicemente ci sono cose che ignora”.
A quel punto l'agente decide di visitare il villaggio per capirci qualcosa di più e non appena raggiunge l'abitato capisce il problema.
Agli inizi della primavera la terra è, per i Pueblos, come una donna incinta che deve essere trattata con gentilezza. In quel periodo era usanza togliere i ferri dagli zoccoli dei cavalli per non danneggiare la superficie, ovviamente non usare i carri e addirittura nemmeno le scarpe. Nello stesso istante, l'uomo bianco (l'agente agricolo Dean Lawrence) era intento a sventrare la terra con il vomere del suo aratro per rivoltare le zolle. Secondo gli indios Pueblo stava violentando la madre terra mentre era incinta.
Nemmeno una trentina d’anni dopo, un agronomo Giapponese scopre che gli uomini delle prime nazioni avevano del tutto ragione. E rilancia con una filosofia di gestione della terra e dell’agricoltura che un secolo dopo (cioè adesso) avrebbe rivoluzionato il paradigma del rapporto tra l’uomo e la natura. Si chiamava Masanobu Fukuoka, pioniere dell’agricoltura naturale, ma questa è un’altra storia… che confido di raccontare.
Per il momento impariamo questa bella lezione: la scienza (e mai come oggi dovrebbe esserci chiaro) non ha tutte le risposte e meno ancora tutte le soluzioni. La scienza non è un monolite inscalfibile che ha sempre ragione. La scienza non è un dogma e nemmeno una religione. Così è anche la tecnica. E’molto utile e accelera tanti processi, ma in una prospettiva più ampia spreca troppe risorse, inquina, violenta e, a ben vedere, non ottiene risultati così performanti come vorrebbero farci credere. Il ciclo della natura invece, non spreca, non inquina, è completamente autosufficiente e, cosa davvero importante, non conosce il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, non conosce le guerre, i furti. La natura non ha morale e le sue leggi sono rispettate da tutti rigorosamente perché ineludibili. Non servono giudici, poliziotti, arbitri, né insegnanti, governanti, banche o soldi. Nemmeno è indispensabile lavorare o ubbidire. No sto dicendo che dovremmo tornare a vivere sugli alberi (ammesso che mai ci fossimo saliti). Sto dicendo che non possiamo dimenticarci dove viviamo (e preferibilmente anche chi siamo veramente). Siamo così orgogliosi della nostra mente che ci differenzia da tutti gli altri animali. Ma se questo è vero, allora l’uomo è nato per pensare, non per ritirare la busta paga, ubbidire e pagare debiti (nostri e degli altri ndr.)